martedì 17 luglio 2012

Per comandare occorrono le ali
L’arte del governo e della guida secondo san Bonaventura
di Inos Biffi

Santuario - La Verna
Il Dottore Serafico (di cui la Chiesa celebra la memoria il 15 luglio), chiamato presto dall’insegnamento universitario al governo dell’ordine francescano, in uno dei suoi mirabili opuscoli, il De sex alis Seraphim, ci ha lasciato una fine e illuminata descrizione delle doti che deve avere un superiore per reggere una comunità. Il trattatello — «ricco di esperienza e di teologia» (Jacques Guy Bougerol) — ebbe di fatto un enorme successo in tutti gli ordini religiosi, specialmente nella Compagnia di Gesù.

Bonaventura è anzitutto persuaso che è difficile trovare individui che non abbiano bisogno di maestro e di guida; del resto, «vi è una grande differenza tra lo stare sottomessi umilmente, il convivere pacificamente e il presiedere utilmente». Ecco perché «conviene a pochi vivere senza il giogo dell’obbedienza»; è anzi necessario che «quegli stessi che sono preposti agli altri, al fine di agire meglio e con maggior cautela, siano, a loro volta, sottoposti ad altri, dai quali vengano guidati, e questo fino al Sommo Pontefice, che è il capo di tutta la Chiesa militante, in rappresentanza di Cristo».

Bonaventura definisce col nome di «ali» le “virtù” che devono contrassegnare il superiore, attingendo all’immagine del Crocifisso alato apparso a san Francesco, e sono: lo zelo per la giustizia, la pietà, la pazienza, l’esemplarità della vita, l’oculata discrezione, la devozione a Dio.
Ognuna di queste virtù viene esaminata dal santo dottore con la finezza dottrinale del teologo e la concretezza di chi conosce a fondo, si direbbe con un disincantato realismo, il comportamento umano, che si ritrova nella Chiesa e nella stessa vita religiosa.
Prendiamo la dote della pietà: il «vicario di Dio» — come egli definisce il superiore — deve possedere «la compassione fraterna. Se nei confronti dei vizi si deve usare la verga di ferro, nei riguardi dell’infermità occorre il bastone che sostiene. Verso i deboli e i malati ci si deve mostrare sommamente umani. Il bravo prelato deve riconoscersi un padre per i suoi fratelli, non un padrone, un medico, non un tiranno, e non li deve considerare come propri giumenti o servi che si sono comprati, ma figli, chiamati a condividere la stessa eredità». Per questo, «è bene che i superiori sperimentino l’infermità degli altri, perché imparino ad averne compassione». E, richiamando san Bernardo, Bonaventura conclude: «Sappiate che dovete essere madri per i vostri sudditi, non padroni; fate in modo di essere più amati che temuti e, se talora è necessaria la severità, essa sia paterna, non tirannica».

Santuario - La Verna

Al superiore, inoltre, è «massimamente necessaria la pazienza». Per esempio, quando constata che, di coloro ai quali dedica continue fatiche, «sono pochi quanti fanno dei progressi» e che «non c’è speranza per i frutti del suo lavoro». Talora poi avverte che «quello che viene stabilito e comandato è eseguito e osservato con negligenza»; oppure che serpeggiano dei disordini, come quando, con la scusa di salvare tutti, si accoglie in convento un numero esorbitante di fratelli, per cui «si offusca la povertà», «accrescono le discussioni sulla compera del necessario», «si spegne la quiete della devozione», «degrada lo stile di vita religiosa», «si intrecciano familiarità proibite, si chiedono doni ai penitenti, si vendono le anime per il lucro, si adulano i ricchi, si allargano le proprietà», per non dire dell’altro inconveniente: la «precipitosa promozione dei giovani». Di fronte a queste e a molte altre cose «il superiore spirituale, dal momento che giudica tutto secondo verità, si consuma e brucia, e, non riuscendo a correggere come desidera, si esercita mirabilmente nella virtù della pazienza».

La pazienza è poi necessaria «di fronte all’ingratitudine di coloro per i quali fatica con tanta sollecitudine»: e, infatti, «difficilmente arriva a soddisfarli e a evitare il loro continuo lamento sempre che, se avesse voluto, avrebbe potuto fare diversamente e meglio nei loro confronti». Per cui «spesso non sa che fare: se cedere alle loro insistenze e accondiscendere a tutto quello che vogliono, o se invece mantenere rigidamente quello che ritiene più conveniente».
Avviene anche — dice Bonaventura — che «distorcono parecchie delle cose che il superiore fa», che «le interpretano al peggio», ed ecco che «mormorano, accusano, denigrano e traggono motivo di scandalo da ciò con cui egli credeva di aver reso ossequio a Dio e a loro». Insomma, «a stento egli riesce a stabilire e a fare qualcosa, senza che si susciti immancabilmente cruccio o agitazione»; e al riguardo «alcuni insorgono apertamente contro di lui, altri lo disapprovano e lo disprezzano per iscritto e incitano gli altri perché vi si oppongano, o impediscono furbamente che possa attuare quello che dovrebbe».
Orbene, «a queste e ad altre contrarietà, che in vario modo lo assalgono, il superiore deve sforzarsi di reagire con lo scudo della pazienza», reprimendo nel rispondere «l’impeto dell’eccitazione» e «non mostrando impazienza nella voce, nel volto e nel comportamento»: «difficilmente si placa l’agitazione con l’agitazione; né si risana il vizio col vizio». È vero invece che «l’impazienza del superiore lo disonora agli occhi dei sudditi e degli altri, lo rende detestabile e temibile; fa sì che i sudditi non osino manifestargli le loro necessità; riempie la casa di brontolii e di rancore; mette in fuga i fragili di mente; rende pusillanimi».

Il superiore deve, dunque, essere un uomo di pace, che «non si vendica delle offese ricevute», «non porta rancore nel cuore verso quanti lo hanno offeso, né li trascura, né cerca di allontanarli da sé, anzi, se li tiene più vicini». «È compito proprio del pastore insegnare le virtù», ma, si domanda Bonaventura, «se allontana da sé i traviati, chi ammaestrerà? Se il medico fugge via dai malati, chi curerà?». E ancora: «tanti vescovi e superiori si sono santificati sia compiendo il bene sia sopportando le avversità nell’esercizio del loro ufficio». Senza dire che, «attraverso le avversità, il superiore stesso viene ripulito dalla polvere dei peccati, che surrettiziamente si insinua in lui a motivo dell’umana infermità», e in tal modo «viene preservato dal tumore della superbia, che più pericolosamente insidia i potenti, quando l’altezza dell’ufficio, la libertà di cui dispongono, la soddisfazione per le opere compiute, facilmente ne inorgoglirebbero lo spirito, se il giogo dell’avversità non umiliasse il collo della loro presunzione, preservandoli dalla voragine della superbia».
E non c’è da meravigliarsi «se non tutti i tentativi del superiore hanno successo con tutti: la stessa opera di Dio rivolta a tutti non riesce a salvare tutti. Non ogni cosa che si semina germoglia».

Per Bonaventura «il superiore dev’essere inoltre animato a sopportare la fatica dal fatto che il suo merito non diminuisce nel caso in cui i suoi sudditi non progrediscono o progrediscono poco». Un maestro infatti «fatica di più quando ha a che fare con un alunno indocile, che non con un alunno disciplinato, ma il suo merito è maggiore agli occhi di colui che sa stimare con giustizia il lavoro. In un terreno sterile e sassoso il contadino sgobba di più, anche se il raccolto è più scarso; il suo premio è quindi maggiore; quello poi che è più oneroso produrre è spesso venduto a prezzo più caro».
 
L’Osservatore Romano, 15 luglio 2012, p. 5.


Nessun commento:

Posta un commento