mercoledì 6 marzo 2013



Vita della vergine Agnese di Praga

Scritta tra la fine del XIII secolo e i primi decenni del XIV, probabilmente da un frate della comunità minoritica voluta dalla medesima Agnese di Praga (1205-1282), la presente Vita in quanto agiografia offre una lettura teologica della storia della clarissa boema. Di seguito sono tralasciati i miracoli, pur importanti, narrati nel capitolo XIII che si possono trovare, in J. Nemec, Agnese di Praga, Ed. Porziuncola, Assisi 1982.



Comincia il prologo della vita dell’inclita vergine suor Agnese dell’ordine di Santa Chiara, di Praga, figlia del re di Boemia Premysl detto Ottocar


Più di una volta sono stato spinto dalle richieste delle venerabili vergini suore dell’ordine di Santa Chiara, di Praga, a scrivere la vita e gli atti della nobilissima vergine suor Agnese, figlia dell’inclito re di Boemia, Premysl, perché la sua straordinaria santità non rimanesse nascosta sotto un dannoso silenzio. Il suo ricordo merita, infatti, di essere celebrato in eterno con espressioni di lode, poiché la imperscrutabile sapienza divina la pose come lucerna sul candelabro della Chiesa militante e dolcemente l’accese con la fiamma della sua grazia, affinché ardesse vivamente in lei per i meriti della sua vita ed illuminasse chiaramente gli altri con la luce del suo salutare esempio. Da parte mia c’era tutta la buona volontà di assecondare questa logica e pia richiesta nella speranza di un’eterna ricompensa, ma, dopo un’attenta riflessione, non ritenendomi all’altezza di questo compito, trattenni dallo scrivere l’indegna mia penna, preso dal timore di oscurare con un inadeguato discorso quanto invece doveva essere esaltato con alte lodi. Finalmente, costretto dall’ordine del reverendo padre superiore, al quale si deve obbedienza, assunsi l’incarico che era al di sopra delle mie forze, preferendo venir meno con umile obbedienza sotto il peso di così grande fatica, piuttosto che andare ostinatamente contro la volontà del superiore, consapevole anche del fatto che la mancata obbedienza è ritenuta un peccato come la superstizione o un’iniquità come l’idolatria.



Così, per la nostra impossibilità di rivendicare qualche cosa come proveniente da noi, in quanto ogni nostra capacità dipende da Dio, il quale misericordioso produce in noi, per benevolenza, il volere e l’operare, riposi in Lui l’intera fiducia concessami dal mio superiore. Intendo dunque scrivere intorno a questa straordinaria vergine soltanto quelle notizie che ho potuto ricevere da quelle persone che vivendo con lei videro direttamente la grandi opere delle sue virtù e che, per i meriti della loro vita, difficilmente potrebbero non essere credute. Illustrerò le grandezze che il Signore si degnò di compiere in considerazione dei suoi meriti, non solo quando era in vita, ma anche dopo la sua beata morte. Di queste alcune pervennero alla mia conoscenza attraverso una visione personale, altre attraverso la testimonianza, accolta con la garanzia di prove sicure, di coloro che ne furono beneficiati. Nella narrazione ho disposto i fatti, per motivi di chiarezza, non sempre secondo l’ordine cronologico, ma, per semplicità, quanto più succintamente e convenientemente mi è stato possibile, ho riunito tutti i fatti che riguardavano un determinato argomento, accaduti o no nello stesso tempo, non solo per evitare motivo di fastidio a chi preferisce la brevità, ma anche per infiammare con più ardore l’animo dei fedeli, spingendoli all’imitazione di questa vergine illustre. Pertanto tutta la sua vita è contenuta in tredici capitoli. Il primo ha come argomento la nascita e la giovinezza; il secondo tratta della santa vita trascorsa, dopo la morte del padre, alla corte del fratello; il terzo parla dell’entrata nell’Ordine di Santa Chiara; il quarto della grande umiltà e obbedienza; il quinto della santa e autentica povertà; il sesto delle gravi sofferenze da lei stessa imposte al suo corpo; il settimo dell’amore per la preghiera e dell’ammirabile devozione al Sacramento dell’Altare; l’ottavo illustra il ferventissimo amore per la croce di Cristo; il nono l’abbondante carità verso le suore e gli afflitti; il decimo ha per oggetto le rivelazioni che Dio le ha concesso; l’undicesimo la morte e gli avvenimenti ad essa legati; il dodicesimo la sepoltura; il tredicesimo, infine, espone i miracoli compiuti per intercessione divina.

 

I. Comincia la vita della nobilissima vergine suor Agnese dell’ordine di S. Chiara, di Praga: la nascita e la giovinezza

Splendore di luce eterna, specchio puro delle divina maestà e immagine della bontà dell’eterno Padre, il Signore Gesù Cristo, la cui misericordia è superiore a tutti gli altri suoi attributi, mentre il mondo volgeva ormai alla fine, ricordandosi della sua ridondante misericordia, dall’alta sede del cielo ha volto lo sguardo benevolo sui figli degli uomini che giacevano nelle tenebre e nell’ombra di morte. Così, per mostrare nei secoli futuri le abbondanti ricchezze della sua grazia e della sua bontà, ha fatto risplendere, traendola dalla massa umana, quasi dalle tenebre, una luce di mirabile santità; come lucifero a suo tempo, ha fatto nascere in quest’ultima epoca la beatissima Agnese, come stella della sera sopra i figli mortali, perché con l’aiuto della sua fulgida compagnia, simile al fulgore di un astro luminoso, l’umanità, che errava nelle tenebre, volgesse i passi dei propri sentimenti in una via di pace. Di inclita stirpe, in quanto nata da genitori entrambi discendenti da famiglia regale, figlia di Premysl detto Ottocar, famoso re dei Boemi e di Costanza, sorella di Andrea re d’Ungheria e padre di santa Elisabetta, ornò ancor di più con stupenda grazia e purezza di vita la sua nobile origine. Sua madre, quando ancora la portava in grembo, ebbe un sogno, chiaro presagio di quanto doveva accadere. Le era sembrato di entrare nella stanza in cui venivano conservate le sue numerose e preziose vesti regali, e mentre stava volgendo lo sguardo su di esse, vide pendere in mezzo a loro una tunica e un mantello di colore bigio ed una corda della quale si cingono le suore dell’ordine di Santa Chiara. Rimase alquanto stupefatta e, mentre per la mente andava chiedendosi chi mai avesse posto una veste così rozza e per niente lavorata in mezzo alle altre di grande valore, udì una voce che così le diceva: “Non stupirti! La prole che tu porti in grembo un giorno indosserà questa veste e sarà luce di tutto il regno di Boemia”.

Dio, che conosce il futuro e che vuole rendere noti gli avvenimenti prima ancora che essi si compiano, subito dopo la nascita della piccola Agnese fece risaltare, per mirabile ispirazione, l’immagine della sua futura santità attraverso segni corporali.

La nutrice, infatti, trovava spesso Agnese nella culla con le mani e i piedi incrociati. Con tale posizione stava ad indicare che colui il quale sopportò per noi le sofferenze della croce, desiderava dimorare per sempre nel suo petto come una borsetta di mirra, per custodire in eterno la sua fiorente verginità.

Quando Agnese compì tre anni, i genitori, desiderosi di darla in sposa degnamente secondo la nobiltà della stirpe, la promisero ad un duca della Polonia. Condotta pertanto in quella terra insieme alla nutrice e ad un onorevole seguito, fu accolta con tutti gli onori nel monastero chiamato Trebnycz. Qui apprese innanzitutto con animo docile, direttamente dalla figlia di santa Edvige, i principi dell’educazione della fede. Qui, sebbene piccolissima, non compì nulla di puerile, ma addirittura quando le suore del monastero entravano nel coro per rimanervi a recitare l’ufficio divino, ella rimaneva inginocchiata davanti all’immagine di Cristo e della Vergine gloriosa recitando continuamente il Padre Nostro e l’Ave Maria, che offriva con devozione a Cristo e alla sua Vergine Madre, esortando con frequenti inviti le compagne a fare altrettanto.

Per volere della divina Provvidenza, che per lei aveva disposto qualcosa di meglio, in seguito alla morte del duca al quale era stata promessa sposa, Agnese, all’età dei sei anni, ritornò alla reggia del padre. Questi l’affidò amorevolmente alle suore del Signore nel monastero di Doksany nel regno di Boemia, perché ricevesse una più approfondita educazione morale e perché imparasse a leggere e scrivere. Per l’intero anno in cui restò con profitto in questa sede, l’insegnante spirituale, lo Spirito Santo, che non ha bisogno del tempo per insegnare, con l’abbondante unguento della sua misericordia unse il cuore di Agnese e le elargì insegnamenti tali che quanto agli altri era dato dalla lezione giornaliera, a lei veniva impartito direttamente da lui. Così, in possesso di qualità spirituali superiori a quelle che normalmente si hanno alla sua età, Agnese evitava l’immoderatezza delle altre fanciulle e gli svaghi, traendo diletto soltanto dal luogo della santa preghiera, cioè dalla chiesa. All’età di otto anni la nobile discepola di Cristo venne ricondotta presso il padre. Qui, in virtù della sua equilibrata assennatezza mostrata nel modo di agire, veniva onorata con carissimo affetto non solo dai genitori, ma anche da tutti quelli che si rivolgevano a lei. Trascorso un po’ di tempo venne finalmente richiesta in sposa dal figlio dell’imperatore Federico, il quale aveva mandato a tale scopo, i propri intermediari. I genitori accondiscesero alla richiesta mediante l’impegno dato agli stessi ambasciatori.

Non va taciuto ciò che accadde a proposito di questo fidanzamento. Nel preciso istante in cui si sanciva l’accordo, infatti, nessuno dei presenti fu in grado di ricordare il nome assai noto della celebre fanciulla, per cui da questo indizio appariva chiaramente che Agnese si sarebbe dovuta congiungere con vincolo eterno non ad un uomo mortale, ma all’Agnello senza macchia, nel cui libro il nome della fanciulla era invece scritto a chiare ed indimenticabili lettere. Ratificata infine la promessa di matrimonio, secondo quanto era stato disposto dall’imperatore, Agnese venne inviata dal padre con un seguito di regale magnificenza in Austria da dove, trascorso un po’ di tempo il duca di quella terra l’avrebbe dovuta consegnare in sposa al figlio dell’imperatore Federico. Alla corte del duca di Austria Agnese non desiderò affatto la carne, ma durante l’intero periodo dell’Avvento, quando tutti i componenti della famiglia ducale secondo il loro costume mangiavano carne, lei solo invece digiunava vivendo di solo pane e di solo vino. Durante poi la quaresima, osservata con abitudini comuni a quelle di Agnese, anche dai familiari del duca, mentre i figli di questi facevano uso di latticini, Agnese invece si accontentava del solo pane e del solo vino. Poiché non voleva rendere noto il proprio digiuno, passò tutta la quaresima digiunando con tanta riservatezza che, all’infuori della nutrice e di qualche altra persona di fiducia, difficilmente altre persone poterono accorgersene. Pertanto, ormai ardentemente desiderosa di procurare al corpo le sofferenze di Gesù Cristo, tormentava la sua tenera carne tenendone a freno la concupiscenza con la cinghia della parsimonia, perché vivendo nella mollezza non fosse ritenuta morta di fronte a Dio. Dedita sempre all’elemosina e alla preghiera, raccomandava se stessa e la sua pudicizia all’immacolata madre di Cristo, che aveva scelto come patrona e con devozione chiedeva di poter diventare una degna imitatrice e compagna della sua virginea purezza. Di conseguenza, durante tutta la vita, venerò con vivissimo fervore religioso soprattutto la festività dell’Annunciazione, meditando con devoto rispetto sul mistero secondo il quale una casta fanciulla terrena, resa fertile dalla rugiada dello Spirito Santo, concepì e diede alla luce il Salvatore e, conservando il privilegio della verginità, è la sola degna di essere chiamata vergine e madre.

Per mirabile volontà di Dio, che disapprova i disegni dei potenti, Agnese in seguito al mancato fidanzamento, all’età di quattordici anni fu ricondotta di nuovo nella terra natia. Ed ecco che, non molto tempo dopo, si presentarono ai genitori di lei i messaggeri dell’imperatore e del re d’Inghilterra, i quali, a gara, chiedevano la mano della fanciulla per il proprio signore. Nel tempo in cui essi si trattennero a corte, un soldato, che accompagnava l’ambasceria dell’imperatore, ebbe una visione del tutto degna di credibilità, che ritengo opportuno narrare. Vide in sogno una corona di straordinaria grandezza scendere sopra il capo della giovane, la quale se la tolse e pose al posto di quella un’altra incomparabilmente migliore. Quando al mattino il soldato si svegliò, ritornò con la mente alla visione avuta durante il sonno e la raccontò ad altri. Come un uomo naturale, che vive privo di intelligenza nello Spirito, interpretò nel senso che proprio la sua ambasceria avrebbe raggiunto lo scopo desiderato: riteneva infatti che Agnese, rifiutato il re degli Inglesi, avrebbe scelto come sposo quello che aveva più alta autorità, cioè l’imperatore. In realtà, però, la grandezza di Dio, che svela in cielo i misteri, con questo sogno volle spiegare che Agnese, destinata a diventare fra poco sposa di Cristo, doveva essere per sempre incoronata da lui non con una corona legata ad un regno effimero, ma con l’incorruttibile corona della gloria.



II. La santa vita condotta dopo la morte del padre alla corte del fratello

Alla morte del padre, il famoso re Ottocar, Agnese rimase presso il fratello, l’inclito Vencesláo, successo al padre nel governo del regno, e crescendo in età cresceva ancor più nella fede, passando di virtù in virtù. Si destava all’alba, si vestiva e con le persone più intime prendeva parte devotamente alla visita delle numerose chiese di Praga; visitava anche le suore dei monasteri adiacenti, affidando vivamente se stessa alle loro preghiere. Spesso tornava affaticata ed i suoi piedi, a causa del pungente gelo, furono visti sanguinati. In tal modo, cercando di pervenire alla vita eterna attraverso la via stretta, sceglieva le vie piene di asprezze. Quando il giorno finalmente splendeva più luminoso, si dirigeva verso la cappella regia o verso la cattedrale accompagnata da un nobile seguito e, senza soffermarsi in inutili discorsi materiali, era intenta a trattare argomenti di natura divina. Entrata in chiesa o nella cappella vi rimaneva ad ascoltare con devozione quante più Messe poteva e, rivolgendo al Signore con il dovuto raccoglimento le orazioni che si recitano nelle vigilie dei defunti, non distoglieva l’instancabile mente dalla preghiera.

Osservando il continuo cambiamento del nostro mondo era giunta a disprezzare la fugace gloria terrena e, per sfuggire di proposito il fascino dello sfarzo mondano, portava nascosto il cilicio sotto le vesti intessute d’oro, come convenivano alla figlia di un re. Ugualmente evitava la sua stanzetta abbellita con splendidi apparati e dormiva, accanto al raffinato letto, sopra un pungente e umile strato di paglia. Questo fu il nobile contegno durante la permanenza presso il fratello, questo lo slancio verso le cose celesti, questo il disprezzo di quelle terrene. Ma una sì fulgida luce non poteva stare nascosta sotto il moggio, per cui la fama delle sue virtù e del suo nome, a somiglianza di una macchia d’olio si diffuse tutt’intorno e, passando da regione in regione, giunse fino all’imperatore. Questi, come in precedenza aveva fatto con il padre di Agnese, inviò al fratello di lei ambasciatori con molte promesse, pregandolo di non negargli in sposa la sorella. Ma, quando il fratello dette il proprio consenso, la vergine di Cristo, protesa alla ricerca di cose accette al Signore, come la santità del corpo e dello spirito, intenta quindi a seguire l’Agnello assieme alla schiera pura delle vergini, decise di non andare sposa a nessuno dei mortali di qualsiasi rango o dignità. Per conferire un vincolo di maggior fermezza alla sua decisione, prendendo una decisione risolutiva confessò il suo intimo proposito al nobile vicario di Cristo papa Gregorio IX, per mezzo di ambasciatori e di uomini di fiducia. Il santo pontefice si rallegrò della devozione della nobile vergine e servendosi degli stessi ambasciatori la fortificò nel Signore, scrivendole paterne lettere, per apprezzare e allo stesso tempo rafforzare il suo santo proposito. La adottò come figlia e si fece presente mediante molti doni spirituali, seguendola ogni giorno con l’affetto di un padre benevolo. L’ancella di Cristo, con lo spirito colmo di grande conforto ricevuto dalla risposta del sommo pontefice, corse subito a confessare con estrema franchezza il suo proposito al fratello. Questi apprese la notizia rimanendone profondamente turbato. Per scusarsi poi debitamente di fronte all’imperatore, e per rendergli manifesto il proposito della sorella, gli inviò un’ambasceria. Si tramanda che ad essa l’imperatore abbia risposto con queste parole: “Se una simile ingiuria fosse stata a noi arrecata da un qualsiasi altro uomo, non cesseremmo mai di vendicare l’oltraggio di un così disonorevole disprezzo. Ma dal momento che Agnese preferì a noi un più nobile sovrano, non considereremo mai questa scelta come un affronto, ma l’accetteremo come volontà di Dio”. Esaltò inoltre il santo proposito della vergine con sentiti elogi e le inviò preziosi doni assieme a molte reliquie, incoraggiandola vivamente con lettere a portare felicemente a compimento quello che in modo salutare aveva intrapreso.



III. L’entrata nell’ordine di Santa Chiara

Agnese, desiderosa di portare a compimento il suo tanto vagheggiato proposito, chiamò a sé alcuni frati Minori ai quali, più che ad altri religiosi, per ispirazione divina, si sentiva affettivamente vicina. Voleva, infatti, essere informata sulla regola seguita dall’Ordine di Santa Chiara, la quale viveva in clausura con altre sante vergini nei dintorni di Assisi, nella chiesa di San Damiano e, come incenso che arde e spande il suo profumo nelle giornate estive, inondava col profumo delle sue virtù ogni parte del mondo. Non appena apprese dai frati che la regola di santa Chiara obbligava chi voleva entrare nel suo Ordine a vendere ogni cosa e donarla ai poveri secondo l’insegnamento evangelico, per servire nella povertà e nell’umiltà il Cristo povero, Agnese si sentì invasa da una celestiale contentezza ed esclamò: “Questo è proprio quello che desidero e che bramo ardentemente con tutto il cuore!”. Subito fece vendere oltre all’oro e all’argento anche oggetti preziosi ed i vari ornamenti e fece distribuire il ricavato ai poveri, bramando che le sue ricchezze venissero dalle loro mani trasferite nei forzieri celesti. Fece poi costruire, ad imitazione di quanto aveva fatto la cugina Elisabetta, vicino al ponte di Praga, un grande ospizio per gli infermi, in onore del beatissimo confessore Francesco e lo rese ancor più munifico con rendite e beni. Lo affidò ai Crocigeri con croce e stella rossa, perché avessero cura degli infermi e soccorressero tutti con sollecitudine elargendo a ciascuno secondo i propri bisogni. In onore del glorioso san Francesco fece erigere a proprie spese anche un monastero per i frati Minori e, in onore del Salvatore del mondo, un celebre monastero per le suore dell’Ordine di Santa Chiara. Lo abbellì, in quanto amava il decoro della casa di Dio, in modo meraviglioso con gloriose reliquie di santi, con vasi ed ornamenti preziosi adatti al culto divino.

Quando giunsero da Trento cinque suore dell’Ordine di Santa Chiara, richieste da Agnese ed a lei concesse dietro approvazione della santa Sede Apostolica, esse furono accolte con grande gioia di spirito e furono introdotte, con gli onori dovuti, nel cenobio a loro destinato. In occasione della vicina festa di San Martino, sette vergini del regno di Boemia, tutte di origine molto elevata, desiderose di legarsi per sempre con i lacci della castità allo sposo delle vergini, si aggiunsero alle prime cinque e indossarono lo stesso abito e presero parte alla stessa mensa. Finalmente anche la saggia Agnese, constatando che nella tempesta della vita di continuo siamo travolti dai flutti della nostra condizione mortale e non possiamo volgere il pensiero alle cose celesti a causa dei mondani tumulti, infiammata più ardentemente dall’amore delle cose divine, in occasione della vicina festa di Pentecoste, alla presenza di sette vescovi, del fratello, della regina, di molti duchi e baroni e di un’eccezionale moltitudine di uomini e di donne di varie nazioni, rinunciò ad ogni onore regale ed a ogni gloria terrena e, assieme ad altre sette vergini di altissima nobiltà, appartenenti al regno di Boemia, come innocente colomba dal diluvio miserabile del mondo convolò verso l’arca della sacra regola. Nel monastero, tagliati i capelli e deposte le vesti regali, vestì abiti di penitenza e di lutto, come un’altra Ester, per farsi smile alla madre Chiara nell’umile veste e nell’aspetto esteriore. Si allontanò così, fuggendo lontana, dalla pericolosa tempesta di questo mondo e con animo tranquillo calò l’ancora dell’amore verso questa solitaria vita religiosa per pregustare in essa col palato dello spirito la stabilità della purezza e della pace eterna, conservando la soavità dell’eterna dolcezza. Rinchiusa fino alla morte in questo angolo di povertà, tutta dedita all’amore di Cristo povero e crocifisso e della sua dolcissima Madre, come mirra scelta diffuse la fragranza della sua spirituale santità. Sulle sue orme, infatti molti cominciarono a costruire monasteri in diverse località della Polonia, moltissime vergini e vedove cominciarono ad affluire nell’Ordine e a condurre una vita celestiale combattendo contro le passioni della carne, pur essendo creature fatte di carne.



IV. La sua grandissima umiltà ed obbedienza

Poiché all’edifico dello spirito è indispensabile, come fondamento stabile e sicuro delle altre virtù, l’umiltà, che l’esempio di ogni perfezione, il Signore nostro Gesù Cristo, insegnò con le parole e con le opere, Agnese, vera ed umile discepola ai suoi occhi, metteva in luce di sé sempre le cose umilianti ritenendo tutti migliori in questa virtù. In conseguenza di ciò, per tutta la vita non volle mai stare alla guida del suo Ordine, ma preferì ubbidire in tutta umiltà piuttosto che comandare sulle altre suore. Come la più piccola e la più umile delle serve di Cristo, volle servire piuttosto che essere servita, ad imitazione del sommo Maestro.

Pur essendo nata da stirpe regale non aveva in orrore il dover accendere la stufa e il dover cucinare per tutto il monastero, ma preparava molto devotamente con le sue purissime mani vivande particolari che inviava agli infermi ed ai frati deboli, piena di sollecitudine come Marta, ansiosa di servire Cristo, tutta indaffarata nel ristorarlo attraverso i poveri. Lavava anche le scodelle e gli altri arnesi da cucina con grande gioia nel cuore; ripuliva di nascosto le stanze delle suore e le parti sporche del monastero, facendosi il rifiuto di tutti per amore di Cristo. Dimentica della signorilità che le veniva dalla nobile nascita, per eccesso di mirabile unità, si faceva portare con caritatevole riservatezza i panni delle suore inferme e dei lebbrosi, ripugnanti per il fetore e per la sporcizia, che poi lavava con le sue delicate mani. In seguito alle frequenti lavature, a causa della forza corrosiva della lisciva e del sapone, aveva spesso le mani ricoperte di ferite. Oltre a ciò rammendava nel silenzio della notte le loro vesti ridotte a pezzi, non volendo avere nessun altro osservatore all’infuori di Dio, dal quale unicamente aspettava la ricompensa per le pie fatiche. Pertanto, come una piccola gemma di rubino incastonata in un gioiello d’oro, la generosità dell’illustre vergine, rifulgendo con il fascino dell’umiltà, la rese meritevole dell’amore di Dio ed oggetto di imitazione da parte delle consorelle e la fece progredire nel cammino verso il possesso di più abbondanti grazie divine, con l’aiuto di chi esalta gli umili. E fu così che la fama della sua mirabile santità arrivò alle orecchie della santissima Chiara, la quale, rallegrandosi al pensiero che la figlia di un re era stata fecondata dalla grazia divina, magnificò l’Altissimo. Incoraggiò poi Agnese con animo materno, deferente e profondamente affettuoso, inviandole frequenti e amorevoli lettere, e la fortificò premurosamente nel suo proposito. Le inviò anche la sua regola approvata dal pontefice Innocenzo IV, di beata memoria, come pegno di osservarla nel futuro. Agnese la lesse con devozione ed ottenne che quella fosse confermata nuovamente, per sempre, dal pontefice Alessandro IV, di beata memoria, per sé e le sue suore del suo convento. Assoggettò se stessa alla professione di questa regola con l’esercizio continuo dell’obbedienza che è superiore delle vittime e, quasi vittima, offrì in ogni istante la propria vita come olocausto di pace. Con tutto lo slancio dello spirito si volse all’osservanza della regola non tralasciando una i o un puntino delle sue norme, per correre per la via dei comandamenti di Dio, senza mai offenderlo minimamente. Obbedì per tutta la vita ai superiori con grande umiltà e rispetto, giudicando leggerissimo e addirittura soave il giogo della santa obbedienza ed il peso della rigorosissima regola per amore del Signore.



V. La sua santa ed autentica povertà

La venerabile ed altissima povertà, con la quale gli umili in spirito acquistano il regno dei cieli, era legata alla sua anima con vincolo talmente stretto, che, nella labilità e caducità dei beni terreni, Agnese non volle mai possedere niente e niente volle possedere nella terra dei morenti, perché il Signore fosse la parte e l’eredità che a lei sarebbe aspettata nella terra dei vivi. Di conseguenza, allorché il cardinale Giovanni Gaetano della Sede Apostolica, al tempo del concilio di Lione celebrato da Gregorio X, cercò di persuaderla con alcune lettere a procurare per sé e per le sue consorelle qualche bene materiale in vista dell’incalzare di giorni particolarmente brutti e pericolosi, Agnese manifestò con fermezza la propria disapprovazione, aggiungendo che preferiva morire nella più squallida miseria piuttosto che allontanarsi di un sol passo dalla povertà di Cristo, che si è fatto povero per noi. Anche quando il re suo fratello ed altri principi le inviavano abbondanti elemosine, ella, per procurarsi amici con le ricchezze, che sono occasione d’iniquità, destinava parte di quelle all’opera di abbellimento dei reliquiari e degli addobbi della chiese, acquistati sempre con grande cura, una seconda parte riservava per venire incontro alle necessità delle suore, una terza, infine, faceva distribuire segretamente alle vedove, agli orfani, ai lebbrosi ed a altri poveri, poiché in tal modo, dopo aver deposto il peso delle cose materiali, come un cammello che si toglie di dosso la propria gobba, potesse entrare più facilmente, attraverso la stretta porta della povertà, nell’eterno tabernacolo, a godere delle sconfinate ricchezze del cielo.

Trascorso un lungo periodo di anni, in seguito alla morte di re Premysl, soprannominato Ottocar, il quale teneva in grande onore Agnese amandola con tutta sincerità non tanto come una prozia, ma come una madre, piacque a Dio – la quale qualche volta lascia che i suoi eletti vengano in questa vita terrena a trovarsi in miseria, perché attraverso questo santo commercio acquistino beni celesti ed eterni al posto di quelli terreni e perituri – che una tremenda miseria colpisse anche Agnese e le sue consorelle, a tal punto che a stento potevano disporre di cibo e pani. Agnese, tuttavia la sopportò con la massima pazienza. Una domenica, infatti, la sesta da quando era sopraggiunta la suddetta indigenza, mentre Agnese sedeva a mensa fu vista alquanto indebolita. Le suore cercarono quindi di rinvigorirla porgendole alcuni piccoli pesci, ma, poiché non riuscirono nel loro intento, furono prese da forte mestizia. Agnese, accortasi di questo loro scoraggiamento, tese le palme al cielo, sorrise e, lodando il Signore onnipotente per una così grande miseria, si rivolse alle suore con queste parole: “Lodate, figlie, il Signore, perché viviamo in povertà; se, infatti, la osserveremo come si deve, il Signore non ci abbandonerà nel tempo della sventura”. Ed ecco che il Dio d’ogni consolazione, esaudì il desiderio delle povere suore e venne in soccorso della loro terribile miseria con un degno prodigio. La suora portinaia, recatasi per assolvere ad alcuni compiti alla ruota, attraverso la quale le suore sono solite ricevere i mezzi di sostentamento, trovò in essa dei pesci chiamati ghiozzi, che poi la serva di Cristo mangiò volentieri, preparati secondo il suo gradimento. Appena li vide, nel momento in cui fece girare la ruota, chiese chi li avesse portati e a chi dovessero essere consegnati, ma non ebbe alcuna risposta. Corse allora con grande gioia a portarli alla serva di Cristo e raccontò in che modo li aveva avuti. Agnese, rendendo grazie al generoso largitore di tutti i beni più per la pietà divina, dalla quale le suore venivano rafforzate nel voto della povertà, che per il sollievo recato al suo corpo, gioì in Cristo suo Signore Salvatore. Un’altra volta, in uno di quei giorni in cui una tremenda fame oppresse il regno di Boemia, nel monastero delle suore, dopo che furono portati a termine i sacri uffici ed era ormai giunta l’ora del pranzo, non si trovava un sol pane per poter scongiurare il pericolo della fame. Non appena la suora addetta alla dispensa se ne accorse, fiduciosa nel Signore si affidò alla preghiera chiedendo appunto al Signore misericordioso, che con larga mano sazia benigno ogni vivente, di elargire alimento anche alle sue serve in tempo opportuno. Frattanto la portinaia si diresse alla ruota per rintracciare qualche frate che andasse in cerca di un po’ di pane per le suore, perché ciascuna potesse ricevere almeno quel pezzettino sufficiente a lenire il male della carestia. Avvicinatisi alla ruota, la vide piena di bianchissimi pani. Chi li abbia portati e deposti lì lo sa solo l’Onnisciente. È da credere, in verità, che per merito di Agnese i pani furono depositati nella ruota, destinati alle vergini rinchiuse di Cristo, che con la sua straordinaria potenza permise ad Abacuc di portare il cibo a Daniele rinchiuso nella fossa dei leoni e che, con indicibile provvidenza, non lascia mai privi di cibo gli animali della terra e del cielo.



VI. Le gravi sofferenze che imponeva al suo corpo

Con quale rigorosa disciplina Agnese castigò il proprio corpo quando ancora indossava gli abiti mondani appare abbastanza chiaramente da alcuni particolari già raccontati. Quando poi raggiunse l’alto grado di perfezione richiesto dalla regola, per conseguire la palma della lotta spirituale, anzitutto assoggettò il nemico più vicino, la gola, con un gravoso digiuno. Tutto questo per soffocare con forza le passioni della carne che lottano contro l’anima e per soggiogare alla legge dello spirito quella che mai si dà per vinta. Durante i numerosi anni di clausura non si cibò mai di legumi, ma solo di cipolla cruda. Di tanto in tanto mangiava qualche frutto, preoccupata non di nutrire il ventre con un cibo piacevole, ma piuttosto di alimentare lo spirito con il nutrimento della grazia divina. Anche durante il tempo di penitenza, nella quaresima tradizionale ed in quella di san Martino, nella quarta e sesta feria e nelle vigilie dei santi dell’anno, digiunava vivendo di solo pane e acqua, per rendersi meritevole, con l’intercessione dei santi, di raggiungere il loro glorioso consesso. Ma oltre a trascurare l’esile corpo fiaccato dal digiuno, lo tormentava ulteriormente procurandogli altre sofferenze e sottoponendolo a gravi supplizi. Portava il cilicio, fatto di peli di cavallo fra loro annodati, che per di più teneva strettamente aderente alla carne per mezzo di una corda fatta anch’essa di simili peli. In aggiunta flagellava abitualmente con durezza le delicate e deboli membra con una disciplina di cuoio piena di nodi.

Non già con la veste intessuta d’oro come una regina si mise in mostra, non restò avvolta di mollezze come quando viveva nella reggia paterna, sebbene anche allora avesse a disprezzo ogni forma di mondanità, ma come la più povera fra le serve di Cristo si accontentò di un indumento privo di valore, che doveva servire non da ornamento del corpo, ma da semplice e pudica copertura. In tal modo fece sì che tutta la gloria alla figlia del re fosse interiore nella purezza della coscienza e nella splendida varietà di più abbondanti virtù. Frattanto, in seguito all’eccessivo rigore a lungo protratto, la bellezza del volto svanì, la floridezza del corpo appassì, gli occhi si offuscarono per le lacrime e le ossa, non più ricoperte di carne, aderirono strettamente alla pelle. Per questa strada cercava di seguire le orme della passione del Signore, e sopportava con animo gioioso le varie sofferenze, animata sempre dall’ardente desiderio di conseguire attraverso le asprezze temporanee il premio dell’eterno conforto.



VII. L’amore per la preghiera e la straordinaria devozione al sacramento dell’altare

La fiamma dell’amore divino, che ardeva continuamente nell’altare del cuore di Agnese, la spingeva tanto in alto, per mezzo della inesauribile fede, da farle ininterrottamente ricercare il suo Diletto. Separata da Lui per mezzo del muro della mortalità, bramava di congiungersi a lui con lo spirito. Quando si recava nel suo oratorio privato, dopo aver chiuso la porticina, vi rimaneva quasi senza interruzione da sola, tranne in quelle ore in cui la sua presenza si rendeva necessaria in mezzo alle altre suore del monastero. Lì, infiammata dall’amore di Dio, veniva portata in estasi sulle ali della contemplazione , lì bagnava con abbondanti lacrime il letto della sua coscienza; lì, immersa in continua preghiera, intrecciava un dolce ed intimo colloquio con il suo Diletto. Qualche volta, infatti, le suore, mentre aspettavano che ella uscisse dall’oratorio perché avevano bisogno di lei, la sentivano parlare con il Signore e udivano anche una voce di uomo, molto soave, che le rispondeva. Quando poi usciva dall’oratorio il suo volto splendeva così intensamente che a stento lo si poteva guardare. Il raggio della luce eterna, che aveva inondato con lo splendore celeste la mente di lei intenta a contemplarlo, faceva infatti diventare splendente la sua carne con mirabili riflessi.

Un venerdì giunse al monastero un nobiluomo inviato ad Agnese da parte del re. Allora una suora, di nome Benigna, che l’accudiva, subito corse velocemente verso il luogo in cui Agnese pregava per invitarla a venire presso l’inviato del re. Appena entrò silenziosamente nell’oratorio, vide Agnese tutta avvolta da straordinaria luminosità come se fosse ricoperta da una nube luminosa, per cui non poté affatto vedere il suo volto, ma vide soltanto vagamente l’immagine del corpo immerso in quella stessa luce. Tutta frastornata da quella visione, uscì in silenzio e riferì al messaggero del re che essa non aveva osato distogliere Agnese immersa nella preghiera.

Un’altra volta, nel giorno dell’Ascensione del Signore, mentre recitava le ore canoniche con due suore, Benigna e Petrusca, nell’orto che era dietro il coro delle suore, all’improvviso scomparve dalla loro vista. Circa un’ora dopo, sempre improvvisamente, riapparve nello stesso luogo alle due suore, le quali, colte da stupore, non avevano osato scambiarsi nemmeno una parola. Alle due consorelle che le chiesero ove mai fosse stata, ella sorrise dolcemente senza tuttavia dare alcuna risposta. È da credere in verità che, avendo Agnese disposto in cuor suo ascensioni fatte con i gradini delle virtù, ed essendo salita spiritualmente assieme a Cristo che ascendeva in cielo, venne trasportata in alto dalla potenza divina anche fisicamente. Nel periodo di quaresima, richiamando spesso alla mente i misteri dell’umana redenzione, andava in estasi e per questo suo quasi continuo anelare alle cose celesti, trascorreva in terra una vita più angelica che umana. Le tantissime volte in cui terminata la preghiera tornava in mezzo alle suore, non pronunciava mai parole oziose o vane, ma con ardenti e soavi discorsi intessuti di argomenti celesti edificava l’animo di chi l’ascoltava, riuscendo a stento a trattenere lacrime e sospiri tutte le volte che pronunciava, leggeva o ascoltava qualche espressione riguardante il Signore. Ma l’antico nemico, il demonio, mal sopportava la sua devozione. Una volta, infatti, nel momento in cui Agnese terminata la preghiera voleva scendere dal luogo in cui di tanto in tanto leggeva e pregava stando vicina alla piccola finestra, fu fatta precipitare dal demonio per le scale in modo così rovinoso che il gomito si staccò dalla relativa giuntura, provocandole per più giorni un forte dolore. Agnese curò il male con la medicina del divino amore, senza manifestare la propria sofferenza, per quanto le fu possibile, alle suore.

Riferisco uno dei numerosi casi in cui il Signore, spinto dalla preghiera di Agnese, si degnò di prestare la sua opera. Un giorno morì, quando ancora era una bambinetta, la figlia del re suo fratello e venne condotta per la sepoltura nel monastero di Agnese. La vergine di Cristo, appena vide la regina in lacrime, mossa da grandissima compassione, si inginocchiò vicino al feretro e, nel silenzio della preghiera, cominciò a recitare il ben noto responsorio: “Tu che hai risuscitato Lazzaro già fetido nel sepolcro…”. Improvvisamente il corpicino esanime cominciò a scaldarsi e le vene si misero a pulsare come nei vivi. L’anima delle defunta così parlò allora alla vergine di Cristo, che era immersa in preghiera: “Perché mi richiami dal gaudio alla tristezza dell’esilio? Sappi, se farai ciò, io non potrò mai essere di sollievo né ai cari genitori, né ad altro essere vivente”. Udite queste parole, Agnese cessò di pregare per la risurrezione della fanciulla. Nello stesso istante il piccolo corpo, che mediante il colore ed il movimento delle vene aveva testimoniato il ritorno alla vita, si rifece freddo. Così da un sol fatto vennero messe in luce la potenza della preghiera dell’umile, che era andata oltre le nubi, la benevola condiscendenza di Dio con la quale Egli si volge ad esaudire i desideri dei suoi figli, ed infine la prudenza di chi l’aveva invocato.

Straordinaria fu la devozione di Agnese verso il Sacramento dell’altare. Prima di ricevere l’Eucaristia, infatti, si ritirava in solitudine e si preparava con preghiere e meditazioni piene di fede. Ricevette per molti anni il Corpo di Cristo attraverso la finestra della propria stanza, preparata per questo ufficio, non volendo rendere manifesti i segreti della divina visita e del suo gaudio. Lì suggeva come una piccola ape il miele della dolcissima divinità dalla roccia e l’olio dell’amore dalla durissima selce. Una volta, colpita da una grave malattia, credette di morire. Si accostò allora, dopo la consueta preparazione, alla mensa dell’Agnello senza macchia, con il massimo fervore religioso. Con incredibile chiarezza mentre stava ricevendo il Corpo del Signore, lo udì pronunciare queste parole: “Agnese, non pensare di morire prima di aver visto morire tutti i tuoi cari”. Appena sentì questa rivelazione, la confidò soltanto al ministro provinciale ed a qualche altra persona sotto forma di un grande segreto. Gli avvenimenti testimoniano che ciò accadde realmente.



VIII. Il fervido amore per la passione e per la croce di Cristo

Agnese, fedele serva di Cristo, amò con tutto il cuore la passione e la croce del Signore. Ogni venerdì, nel momento della crocifissione, protraeva la preghiera fino all’ora nona, restando amorevolmente accanto alla croce assieme all’afflitta madre di Gesù. Mentre era in contemplazione del supplizio della sua dolorosa morte, il suo sguardo con gli occhi dell’anima, mosso da profonda pietà, restava immerso nell’amarezza. Per tutta la sua vita non cessò di portare la preziosa croce dietro a Cristo, sopra le spalle della sua fede e con la pratica delle virtù. Questa era infatti il suo vanto, questa era la scala per salire le sue fatiche, le sue gravi malattie e le varie avversità sopportate sempre con animo puro, come furono addolcite le acque di Mara. Con il segno glorioso della croce portava conforto agli ammalati, cacciava i demoni caparbi e compiva numerose altre azioni delle quali riferirò qui brevemente soltanto una piccola parte.

Una nobile donna di nome Sofia, sposa di un cavaliere di nome Corrado, abitava a Praga davanti al convento di Agnese. Dopo il parto si era talmente indebolita che, restando per molti giorni senza mangiare e senza bere, aveva assunto un aspetto che era più simile a quello di un morto che a quello di un vivo. Un giorno, quasi in preda al delirio, cominciò a dire: “Voglia il cielo che Agnese, la mia signora – era infatti da lungo tempo a lei devota – mi dia da mangiare una mela”. A tali parole, suo marito, fiducioso che la sua sposa potesse ottenere l’auspicata guarigione per intercessione di Agnese, si recò in tutta fretta dalla serva di Dio e la pregò con le lacrime agli occhi di voler intercedere presso il Signore a favore di sua moglie e volerle mandare una mela. Asseriva, infatti, che in tal modo essa avrebbe riacquistato la desiderata guarigione. Agnese, sempre pronta ad accorrere misericordiosamente verso gli afflitti, mossa da compassione dalle lacrime del cavaliere, corse subito nel frutteto del monastero: ma né lei, né le suore che l’accompagnavano trovarono un sol frutto sull’albero verso il quale si erano dirette. Allora fece il segno della croce rivolto a quell’albero ed invocò la Santissima Trinità. Subito vide tre mele attaccate ad un unico ramoscello. Le colse e le mandò alla nobile Sofia con queste parole: “Mangia tranquillamente questi frutti avuti miracolosamente da Dio, perché da essi, secondo la sicura volontà del Signore, otterrai la salvezza non solo del corpo, ma anche dell’anima”. Il marito, pieno di contentezza, ritornò a casa con il salutare rimedio. Dopo aver invocato con fiducia il nome del Signore, avvicinò le mele alla bocca della moglie. Questa, avvertendo già la salvezza portatale con i frutti di Dio, immediatamente aprì gli occhi, prese le mele e cominciò a mangiarle con tanta avidità, come se non fosse mai stata ammalata. Così per la potenza della santa Croce e per i meriti di Agnese, riacquistò la salute. Dopo un certo periodo di tempo, la nobile donna, rimasta vedova, servì il Signore conservandosi casta. Divenne madre di tutti i poveri compiendo opere di misericordia ed ottenne, come le era stato predetto da Agnese, la migliore salvezza, quella dell’anima.

Una volta una suora del monastero, di nome Elisabetta Rehnikova, giaceva a letto afflitta da un fortissimo mal di testa che ormai da tre giorni le impediva di muovere il capo, di guardare in alto e di mangiare. Finalmente la poveretta fu condotta a fatica da una suora alla presenza di Agnese. La vergine di Cristo, conosciuta la sofferenza della consorella, tolse dal proprio capo il velo bianco e lo fece porre amorevolmente su quello dell’inferma. Fece poi sul capo e sulla fronte di quella il segno salutare della croce. Quando queste azioni furono compiute, improvvisamente la suora si sentì guarita da ogni dolore.

Un’altra volta la vergine di Cristo si dirigeva con ansia verso il suo oratorio aiutata, a causa della debolezza, da una suora di nome Domka di Svorec. Appena arrivarono videro, attraverso la finestra, l’angelo delle tenebre che, sotto le orribili e deformi sembianze di un uomo, sembrava appoggiarsi ad un albero. La suora che era con Agnese si mise a gridare dalla paura. Agnese per tranquillizzarla fece il segno della croce di fronte al demonio, invocando il nome della divina Trinità. Il demonio non sopportò la potenza della croce ed immediatamente, con il volto tutto corrucciato, si allontanò.

Un’altra volta ancora, mentre si dirigeva verso il suo oratorio sorretta dall’imperatrice Elisabetta, sua parente, quando ormai stava per oltrepassare la soglia di quel luogo, vide il demonio nelle sembianze di un gufo che sembrò, anche agli occhi di Elisabetta, volerle con la coda ostruire il passaggio. Agnese fece il segno della croce e subito cacciò il terribile animale. Ella, infatti, degnamente agiva avvalendosi della potenza della santa croce, poiché portava impressa nel suo cuore la passione dell’innocentissimo Agnello immolato per noi sulla croce.



IX. L’abbondante carità verso le suore e verso gli afflitti

La carità con la quale la vergine di Cristo veniva incontro al prossimo si manifestò più chiaramente attraverso i fatti. Una volta, in seguito all’eccessiva astinenza dal cibo, le vennero meno le forze. Allora il papa ed i suoi superiori ordinarono di portare a lei, anche contro la sua volontà, una maggior quantità di alimenti. Ella tuttavia, con il vitto che le veniva inviato per risollevare il suo esile corpo indebolito, faceva provvedere alla salute delle suore deboli ed inferme, che lei stessa assai spesso andava a trovare, prendendosi solerte cura di tutte le loro necessità. Come una chioccia riscalda sotto le sue ali i pulcini, ella scaldava dolcemente le suore accostandole all’ampio grembo della materna amorevolezza. Misericordiosa e prodiga verso tutti i bisognosi era invece troppo parca ed austera verso se stessa; soffrendo la fame nutriva gli altri e, pallida per i digiuni, era afflitta dalla fame altrui. Durante tutta la sua vita, anche in quella trascorsa prima di entrare in monastero, mantenne l’animo caritatevole verso tutti gli afflitti e soccorreva con pie opere di beneficenza, tutti coloro che ricorrevano a lei chiedendo aiuto a Dio e agli uomini. Restituiva la libertà ai fuggiaschi ed ai carcerati, liberava dalla morte coloro che dovevano pagare il fio dei loro misfatti e che dovevano essere torturati con vari supplizi, sedava le liti, soccorreva a misura delle proprie possibilità ciascuno secondo i propri desideri. Dio Onnipotente aveva riempito di così profonda pietà il cuore di Agnese ed aveva cosparso sulle sue labbra una così dolce grazia che ella gioiva con chi gioiva e piangeva con chi piangeva. Se poi un dolore qualsiasi affliggeva qualcuno, se incombeva una calamità o se una disgrazia abbatteva una persona, Agnese aveva per tutti la dolce parola di conforto. Se qualche volta pensava di dover muovere un rimprovero, per un qualche motivo, ad una suora, non passava sotto silenzio la colpa, ma, come colei che ha a cuore la salute dei propri cari, si comportava con grande carità e saggezza, rimproverando con maggior severità quelle suore che sembrava amare di più. Dopo aver poi incoraggiato al bene con sante parole la suora che aveva un istante prima rimproverata, Agnese si gettava umilmente ai suoi piedi dicendole: “Perdonami, sorella cara, se in qualche cosa ti ho contristata”. Stava molto attenta, infatti, a non rattristare nessuna suora, specialmente quando non ne vedeva la necessità.

Anche di fronte ai peccati degli uomini emetteva dal profondo del cuore affannosi sospiri, piangendo amaramente più per la loro caduta spirituale che per la morte dei suoi cari familiari. A buon diritto dunque il Padrone di tutto amò lei, perché anch’essa con tanta sincerità amò il prossimo.



X. Le rivelazioni a lei concesse da Dio

Non mi sembra da passare sotto silenzio il fatto che Agnese conosceva le cose nascoste e lontane come se fossero visibili e presenti, rivelate a lei da colui che mette in luce ciò che è nascosto nelle tenebre. Quando il figlio di suo fratello, il re Premysl detto Ottocar, andò in Austria per combattere contro Rodolfo, re dei Romani, le suore andavano spesso in processione portando la santa croce ed altre reliquie e cantando devotamente salmi penitenziali al Signore per la salvezza del loro re. Un giorno, mentre Agnese era in processione con altre suore, vide il re, suo nipote, gravemente ferito nel momento in cui veniva trasportato da due uomini di alta statura. Raccontò la visione alle suore ritenendola un’illusione diabolica, perché non si considerava degna di conoscere per rivelazione divina quanto aveva visto. Invece, nello stesso momento in cui questa visione veniva presentata nei suoi dettagli, il re, suo nipote, fu ferito, catturato ed ucciso dai nemici, così come in seguito fu dimostrato dal racconto dei fatti realmente accaduti.

Un’altra volta una persona consegnò ad una suora alcune splendide mele perché le portasse ad Agnese. La suora, vinta dalla concupiscenza degli occhi, si appropriò di una mela che poi, presa dal rimoso di coscienza, di nuovo ripose assieme alle altre. Consegnò quindi ad Agnese tutta la frutta così come le era stata data. Agnese, che aveva visto il comportamento della suora, offrì ad essa non solo la mela che aveva tanto bramata, ma anche un’altra dicendole: “Hai fatto bene, o figlia, a riporre la mela: è meglio infatti per te avere due mele senza il rimorso di coscienza, piuttosto che una sola mela con il peccato”. Senza dubbio lo spirito di Eliseo abitava in Agnese, la quale vedeva con l’anima tutto quello che avveniva in sua assenza. Un’altra suora di nome Ermengarda, detta la Piccola, per una sua ragione personale rivolgeva in maniera del tutto segreta molte preghiere al Signore. Il giorno in cui Agnese se ne accorse, con molta fermezza le disse: “Cessa di ripetere continuamente la preghiera che con ansia rivolgi al Signore, poiché la cosa per la quale tu preghi non è accetta a Dio”. Anche in occasione della morte delle suore del suo monastero, era solita stare accanto a loro con pia commozione ed implorava supplichevolmente per loro la divina clemenza. Di alcune conobbe spesso, per ispirazione, pene e delizie.

Un giorno una suora aveva pronunciato in assenza di Agnese alcune parole offensive. Trascorso un certo periodo di tempo, senza aver chiesto le debite scuse, la suora morì. Un giorno in cui la vergine di Dio era rimasta da sola in preghiera udì accanto a lei l’anima della suora che riconosceva umilmente il proprio peccato e chiedeva con insistenza e con voce sommessa di essere da lei perdonata per intercessione di Dio, come se non potesse altrimenti liberarsi dalle pene.

Un’altra suora di nome Brigida che era entrata in convento con Agnese ed era a lei molto cara, si distingueva per onestà. Dopo aver trascorso molti anni nell’osservanza della regola in maniera degna di lode, si ammalò gravemente e morì. Agnese, che in occasione della sua malattia si era molto addolorata, non manifestò invece alcun segno di mestizia per la sua morte. Aveva visto, infatti, gli angeli del Signore che la servivano e spargevano incenso sul suo corpo, dimostrandole tanto amore. Molti notarono che tutte le sue predizioni, anche dopo lo spazio di molto tempo, si avverarono nel modo e nell’ordine da lei precedentemente esposti, come apparirà dalla descrizione di alcune di esse. L’anima di Agnese, ricolma com’era di spirito eterno per il quale non esiste né passato né futuro, ma tutto è chiaro e svelato, oltre a conoscere i segreti ed i moti dei cuori, esponeva con estrema certezza anche gli avvenimenti futuri come se fossero presenti o passati.



XI. Morte e gli eventi ad essa legati

Era ormai vicino il giorno in cui Cristo voleva chiamare a sé da questa terra la sua serva Agnese per ammetterla nella celeste dimora e per premiarla delle sue pie azioni con la corona della giustizia. Si avvicinava il tempo della grande quaresima durante la quale Agnese riceveva continue visite, in segno di devozione, da parte di persone laiche. In questo periodo era solita anche appartarsi dalle suore per seguire l’esempio di Cristo che nella solitudine del deserto digiunò quaranta giorni e quaranta notti. Dedicandosi solo a Dio, digiunava nella cenere e nel cilicio mentre con preghiere miste a lacrime invocava Dio misericordioso perché la purificasse con l’acqua della sua misericordia, nel caso che qualche cattivo residuo fosse a lei rimasto attaccato dalla vita terrena. Un giorno la mano del Signore fu sopra di lei. Il suo corpo cominciò a perdere vigore, per cui Agnese, presa da debolezza sopraggiunta con grande rapidità, si mise a letto. Nella terza domenica di quaresima, sentendo avvicinarsi l’ora della sua felice dipartita da questo mondo, confidò in segreto a pochissime persone a lei più care che era giunto il momento della sua morte. Con profonda devozione assicurò al suo viaggio il benefico viatico, ricevette cioè la santa Eucaristia e la sacra unzione, alla presenza dei frati e delle suore.

Contemporaneamente una suora dello stesso monastero, di nome Caterina Eckadorva costretta a letto da più di dieci anni oppressa da una malattia ai piedi, per cui era di gran peso per le suore che dovevano portarla da un luogo all’altro, venuta a sapere che la serva di Cristo Agnese, a lei particolarmente cara, aveva ricevuto la santa Eucaristia e stava ricevendo l’estrema unzione, si mise a gridare ad alta voce, attirando così l’attenzione delle suore assenti. Queste, allora, si recarono da lei che, con fortissima insistenza, chiedeva di essere condotta alla presenza di Agnese. Non appena le fu vicina si abbandonò ad un pianto inconsolabile, accompagnato da continue parole di dolore: “Ahimè” – diceva – madre carissima, perché vuoi abbandonare le tue figlie e me in modo particolare? E chi, dolcissima vergine, consolerà me misera?”. Così le rispose la vergine di Cristo mossa a compassione del suo dolore: “Non piangere, Caterina, perché tra poco il Signore ti consolerà”. Allora Caterina e le altre suore cominciarono a chiedere con incessanti preghiere di essere da lei benedette con il segno della croce. Poiché Agnese per umiltà non acconsentì, Caterina prese con delicatezza una mano di lei e la pose sulla parte dolorante del proprio corpo. Si sentì subito invasa da un dolore così pungente che le sembrò di avere tutti i nervi spezzati. Dopo un leggero sudore racquistò le forze e alla presenza di tutti cominciò a camminare. Da quel momento in poi camminò sempre benissimo fino alla morte. Tutti ritennero che il Signore si degnò di compiere questo miracolo per elevare i meriti straordinari della sua serva, perché colei che in vita aveva brillato per santità, fosse resa famosa con lo splendore del miracolo.

Sebbene fosse ormai abbandonata da quasi tutte le forze del corpo conservava tuttavia uno spirito forte ed ardente. Pregava con devozione, consolava con dolci e affettuose parole le suore che, costrette a rimanere senza di lei, piangevano inconsolabili, e le esortava con materna benevolenza a raggiungere la vetta della perfezione, rivolgendole loro queste parole: “Figliole mie carissime, custodite con ogni sforzo l’amore verso Dio e verso il prossimo, cercate d’imitare l’umiltà e la povertà che Cristo ebbe e che insegnò a raggiungere, mostrandovi sempre obbedienti alla Chiesa di Roma, sull’esempio del santissimo nostro padre Francesco e della venerabile vergine Chiara, i quali trasmisero a noi questa regola di vita. Vi accorgerete sicuramente che, come il Signore misericordioso non abbandonò mai Francesco e Chiara, così la sua dolce clemenza non abbandonerà nemmeno noi, se seguirete con zelo il loro esempio”. Queste ed altre esortazioni aveva impresso nel cuore delle sorelle durante le ore della sera e della notte, come se si trattasse di un testamento da rispettare integralmente per sempre. Il giorno seguente, cioè il lunedì, cominciò ad essere pervasa da gioia, il suo volto si fece tutto sorridente e il corpo si riempì tutto di luce fino all’ora sesta. Dopo l’inizio della Messa, celebrata dai frati all’ora nona, circa l’ora in cui il Salvatore dell’umanità spirò in croce per la nostra redenzione, l’ancella carissima a Dio, affidando l’anima nelle mani del Padre celeste, il due marzo dell’anno di grazia 1281 [anno civile 1282] si addormentò serenamente nel Signore e, sorretta da una scorta di angeli, entrò piena di giubilo nell’eterno gaudio.

O beata vergine, che per quarantasei anni nell’Ordine religioso si fece partecipe della passione di Cristo, morendo nella sua stessa ora, e che, respinta la caligine della mortalità, contempla ora limpidamente il sommo Dio nella santa Sion con lo sguardo diretto dell’anima! O anima carissima a Dio, che, separatasi dal carcere del corpo si dirige liberamente al cielo unendosi ai cori inneggianti e, inebriata dal torrente delle delizie divine dell’eterna festa e dell’eterno rendimento di grazie, canta con soave armonia le lodi in onore del re della gloria, per essere uscita dall’attaccamento alle cose del mondo!



XII. La sepoltura del venerabile corpo

Frattanto le suore, figlie di una così grande madre, rimaste prive di conforto, riempivano di lamenti il monastero ed irrigavano di abbondanti lacrime i loro volti di vergini. Trasportarono il corpo di Agnese nel coro ove, pur rimanendo due settimane insepolto, emanava un profumo così straordinario che chiunque si avvicinava alla salma veniva preso da insolita soavità. Anche le sue innocenti mani si mostravano, a chiunque le accarezzava, non rigide o dure come quelle di un morto, ma morbide e mobili come quelle di un vivente. Per due settimane i frati Minori entrarono ogni giorno nel chiostro delle suore e, attraverso la celebrazione di Messe e il canto delle ore canoniche, tributarono alla salma le debite onoranze. Inoltre, quasi tutta la città, ogni giorno con una grande moltitudine di persone, si recò al monastero chiedendo con vivissima insistenza di poter vedere, almeno attraverso la grata, quel salutare tesoro donato dalla generosa bontà di Dio. Tutte le numerose volte in cui il corpo veniva mostrato all’incessante folla, veniva da molti toccato con grande devozione. Vi si accostavano anelli, cinture ed altri oggetti con la speranza di ricevere attraverso il loro contatto le grazie desiderate, per i meriti della gloriosa vergine Agnese. In realtà assai spesso vennero accordate grazie col soccorso della divina clemenza. Infine le suore, non potendo più sopportare l’importunità di chi continuamente bussava al monastero, deposero con cura il corpo di Agnese in un’arca nuova di legno e, dopo avervi adattato il coperchio con alcuni ganci di ferro, la chiusero saldamente con un grosso chiodo.

Intanto la notizia della morte della gloriosa vergine, dilagando in lungo e in largo, giunse attraverso veridici racconti ad una donna di nome Scolastica di Sternberk nobile di costumi e di nascita, che amava dolcemente la vergine di Cristo e con devozione la serviva. Quanto più frettolosamente poté giunse a Praga. Con tutte le lacrime implorò le suore di lasciarla entrare in monastero per vedere il corpo della sua prediletta, in quanto munita di permesso da parte della Sede Apostolica. Ma le suore risposero che la regola del monastero non permetteva ad una persona laica anche munita di permesso, di entrare durante la quaresima. Aggiunsero poi che se anche la lasciassero entrare, non le accorderebbero il permesso di vedere il corpo di Agnese. Vinte finalmente dalle importune richieste, assecondarono il suo desiderio. La donna, entrata nel monastero, si prostrò versando lacrime di dolore davanti all’arca in cui era custodito il corpo di Agnese. Allora una suora si avvicinò all’arca e con bisbigli chiese se doveva in qualche modo aprirla, poiché tale operazione le sembrava particolarmente faticosa e difficile. Ma improvvisamente al suo avvicinarsi, il chiodo che a forza era stato conficcato saltò da solo davanti allo sguardo stupefatto delle persone presenti, provocando, con la sua caduta sul pavimento, un certo rumore. L’arca si aprì ed apparve agli occhi di tutti il corpo di Agnese. Tutto questo avvenne certamente non senza l’intervento di Dio, che tiene in mano le chiavi di David, per i meriti della straordinaria vergine, al fine di arrecare gioia alla nobile donna affezionata ad Agnese.

Intanto i frati e le suore inviarono nunzi al venerabile Tobia vescovo di Praga e ai vicini abati, per ottenere che qualcuno di loro venisse a tumulare con i debiti onori il corpo di Agnese. Ma tutti, per un imperscrutabile disegno di Dio, rifiutarono l’invito portando a pretesto ciascuno i propri impegni. Poco prima di morire, infatti, l’inclita vergine aveva predetto che sarebbe stata sepolta non da un vescovo o da un alto prelato di un altro Ordine, ma da un frate Minore mai visto prima di allora in terra boema. Giunse, quattordici giorni dopo la morte di Agnese, il venerabile padre fra Bonagrazia, ministro generale, il quale il giorno successivo al suo arrivo, cioè la domenica di passione, seppellì con devozione e con grande onore, assieme ad altri numerosi frati che erano lì accorsi, quel prezioso pegno d’amore nella cappella della santissima Vergine Maria, così come Agnese aveva richiesto, nel luogo cioè, in cui nei momenti di particolare necessità era solita ascoltare le Messe. Lì per molti giorni, un fragrante profumo inondò le suore che vi si recavano a pregare. Un giorno una suora che si era lì raccolta in preghiera, addormentatasi, vide la vergine di Cristo. Le chiese allora il perché di quell’intenso profumo proveniente dalla sua tomba. Agnese rispose che esso era dovuto alla moltitudine degli angeli celesti che venivano a visitare il suo corpo. In verità era cosa del tutto giusta che il suo corpo profumasse soavemente dopo la morte. Essa, infatti, come un’aiuola di aromi seminata dal giardiniere del cielo, mentre era in vita profumava dolcemente con i fiori delle sue virtù. Ora, dunque, trapiantata fra i fiori celesti, come un fiore di rosa, rifiorisce gloriosa nei giorni dell’eterno gaudio e supera il profumo di tutti gli aromi.  



Ora in verità, viene castamente abbracciata dal suo candido e vermiglio diletto, per amore del quale rifiutò lo sposo terreno. Ora l’umile ancella viene premiata da lui nella dimora celeste con una gloriosa corona a ricompensa della vita trascorsa nella cenere e con l’olio dell’eterna gioia, a ricompensa delle sofferenze terrene. Ora arricchita dai tesori dell’eterna felicità, in cambio dell’estrema povertà, risiede nei pascoli ubertosi vicino a fiumi ricchi d’acqua, ricolma di delizie divine a ricompensa della sua temperanza. Ora, dopo che il saio si è ridotto a brandelli, indossata la veste della letizia ed ornata come una sposa di monili, fatti di virtù, entra nella stanza del vero Assuero, per unirsi per sempre a lui con i legami dell’amore spirituale. Qui con le figlie di Sion esultante nel suo Re, vede il Suo volto nel giubilo e si associa senza stanchezza alla gloria di Dio. Di questa gloria renda partecipi anche noi, per intercessione e per i meriti dell’inclita vergine, il nostro Salvatore amorevolissimo Gesù Cristo al quale assieme al Padre e allo Spirito Santo siano resi ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli.



XIII. I miracoli compiuti da Agnese per intercessione divina

L’onnipotente Iddio, che con la sua munifica pietà esalta i suoi santi, chiaramente magnificò Agnese, vergine beata di santa Chiara, nobile pianticella del regno di Boemia, non solo perché le concesse di operare numerosi miracoli, venendo in aiuto con la sua destra misericordiosa a chi, trovandosi nelle sofferenze e nei pericoli, invocò il nome della sua serva. Per far in modo che il glorioso Dio sia ancor più benedetto e lodato nei suoi santi e venga aumentata la devozione dei fedeli verso la venerazione della sua luminosissima vergine, ho ritenuto opportuno esporre in breve almeno alcuni dei numerosi miracoli.

[…]

O vergine benigna, che nel lido della celeste patria ti allieti della tranquilla dimora, rivolgi gli occhi tuoi misericordiosi assieme agli altri tuoi devoti, a me che sono il più piccolo tra i più piccoli servi di Dio e che balbettando ho esposto, come mi è stato possibile, le tue gesta gloriose. Con le tue santissime preghiere trai fuori dalle acque dell’abisso e dal fango della palude noi che ancora siamo sbattuti, miseri, in un mare burrascoso e che, traendo a fatica la barca del nostro corpo attraverso voragini tempestose, non conosciamo se potremo pervenire ad una spiaggia sicura. Fa’ che non ci sommerga la sempre mutevole tempesta d’acqua, cioè la tribolazione, e non ci assorba l’abisso dell’eterna dannazione.

Prega la maestà di Dio, del quale ora stai godendo la visione piena di giubilo, perché si degni di guidarci con la sua potente destra attraverso i flutti di questo mare, permettendoci di passare in mezzo a Scilla e Cariddi e di raggiungere tranquillamente il porto dell’eterna felicità con la barca e le merci portate in salvo, dopo essere scampati da entrambi i pericoli. Questo voglia garantirci per i tuoi sacri meriti e per le tue preghiere Colui che è Dio benedetto, degno di essere lodato e glorioso nei secoli dei secoli. Amen.

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